Scrittori in manette, vampirelle, uomini nudi, poliziotti corrotti e investigatori per caso nella nostra selezione delle migliori serie-tv tratte dai libri che abbiamo visto a Giugno 2022

Ogni mese, le principali piattaforme streaming aggiungono una miriade di serie televisive di nuova acquisizione (o semplicemente nuove) nei loro cataloghi in continuo aggiornamento. Quindi cosa dovreste guardare? Beh, quello che preferite, ovviamente, ma il nome di questo sito è Librangolo, e quello di questa rubrica Libri in TV, per cui qui troverete solo consigli televisivi sulle serie-tv ad ispirazione letteraria.

A tal fine, ecco una selezione di nuovi titoli che sicuramente dovreste vedere (o anche evitare…) tra quelli già pubblicati (e non sempre per intero) sui servizi di streaming nel mese di Giugno 2022.

La formula scelta è anche questa volta quella dei 5 articoli in uno, che per questo numero si avvale del prezioso contributo di una special guest d’eccezione: la nostra stroncatrice preferita Miss Me, qui alle prese con la sua prima recensione televisiva. Per sapere quale titolo ha catturato l’interesse della nostra esperta del Giallo, non dovete fare altro che proseguire.

Buona lettura e buona visione!

5 SERIE-TV TRATTE O ISPIRATE DAI LIBRI CHE ABBIAMO VISTO IN STREAMING A GIUGNO 2022

Attenzione! Le trame delle serie che seguono potrebbero contenere alcuni spoiler, anche se niente di particolarmente invasivo.

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THE STAIRCASE – UNA MORTE SOSPETTA
(MINISERIE-TV 2022)

Trasmissione originale: HBO Max dal 5 maggio al 9 giugno 2022
Trasmissione italiana: Sky Atlantics/Now TV dall’8 al 29 giugno 2022

THE STAIRCASE – IL LIBRO
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THE STAIRCASE – THE MURDER OF KATHLEEN PETERSON (edizione inglese)

  • Autore: RJ Parker
  • Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform
  • Data di pubblicazione: 15 settembre 2018
  • Pagine: 222
  • Prezzo: 9,13 €
SINOSSI LIBRO: Il 9 dicembre 2001, il corpo insanguinato di Kathleen Peterson veniva trovato morto in fondo alle scale nella sua casa in Carolina del Nord che condivideva col marito, il romanziere Michael Peterson. “Mia moglie ha avuto un incidente”, dice Peterson alla chiamata ai servizi di emergenza. “Respira ancora. È caduta dalle scale.” Tuttavia, prove macchiate di sangue e un attizzatoio mancante suggerivano che si trattasse di un omicidio a sangue freddo. Due anni dopo, Michael Peterson veniva condannato all’ergastolo per omicidio di primo grado.
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Durante il processo a Mike Peterson, Duane Deaver, esperto di schizzi di sangue, ha reso la sua testimonianza in cui ha spiegato che visto il sangue presente sul muro delle scale e sui vestiti di Michael, era evidente che l’accusato era colpevole dell’accusa di omicidio di primo grado di Kathleen Peterson. La sua testimonianza ha giocato un ruolo cruciale nel mandare Michael dietro le sbarre. La sua testimonianza falsa ha giocato un ruolo decisivo nel rilascio di Peterson.

Il processo che seguì fu ricco di interpretazioni e teorie strampalate;  dall’attacco di un gufo al collegamento a una seconda morte simile in natura, quella della sua vicina Elizabeth Ratliff, anch’essa trovata morta in fondo alle scale.

La chiamata al 911 è stata tutta una recita?
E la teoria del gufo?
Qual era il motivo?
Che fine ha fatto l’arma del delitto?
C’è stato un complice che si è sbarazzato dell’arma?
Cosa è successo davvero su “La Scala”?

DAL LIBRO ALLA SERIE-TV

Mi stanno fregando. Kathleen lo diceva, diceva “Mike, lascia stare il municipio, la procura e la polizia o ti faranno il culo”. È una vendetta, ecco che cos’è”.
Michael Peterson

scrittore di romanzi gialli

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  • Titolo: The Staircase – Una Morte Sospetta
  • Produzione: USA
  • Anno: 2022
  • Stagioni: 1 (miniserie-tv)
  • Puntate: 8
  • Sigla: The Staircase Theme di Danny Bensi & Saunder Jurriaans
  • Creato da: Antonio Campos
  • Cast: Colin Firth (Michael Peterson); Toni Collette (Kathleen Peterson); Michael Stuhlbarg (David Rudolf); Dane DeHaan (Clayton Peterson); Olivia DeJonge (Caitlin Atwater); Patrick Schwarzenegger (Todd Peterson); Sophie Turner (Margaret Ratliff); Parker Posey (Freda Black); Juliette Binoche (Sophie Brunet); Vincent Vermignon (Jean-Xavier de Lestrade)
  • Genere: Drammatico, Crime

Non una semplice tendenza, ma un vero e proprio boom televisivo di storie appartenenti al genere true crime (cioè basate su vere vicende di crimine), pronte a invadere i nostri schermi in questi bollenti mesi estivi.

The thing about Pam (NBC) con una sempre più irriconoscibile Renée Zellweger nei panni di Pam Hupp, sospettata nel 2011 di aver ucciso la sua migliore amica Betsy Fari, non prima di aver portato alla condanna (poi rivista) suo marito Russ ed aver intrattenuto milioni di americani all’interno del programma serale Dateline NBC (una sorta di “Quarto grado” americano); Love and Death (HBO) con Elizabeth Olsen e Candy (Hulu) con Jessica Biel, entrambe ambientate sulle stesso caso di cronaca nera che nel 1980 vide la casalinga texana Candy Montgomery uccidere la sua vicina di casa e amica Betty Gore con 41(!) colpi d’ascia; In nome del cielo (Hulu) con Andrew Garfield nei panni di un detective che indaga su un doppio caso di omicidio ad opera di 2 fratelli adepti di una chiesa mormona fondamentalista; The Girl From Plainville (Hulu), con Elle Fanning nei panni di Michelle Carter, una diciottenne americana accusata nel 2014 di omicidio colposo per aver istigato al suicidio il suo ragazzo semplicemente tramite messaggi di testo. Sono solo alcuni dei titoli (alcuni dei quali già trasmessi in USA), che vedremo e di cui sicuramente torneremo a parlare nei prossimi mesi.

Ma perché quest’abboffata di nuovi titoli crime? Perché, anche quando parliamo di vittime reali, il pubblico ama i delitti, ne è anzi morbosamente attratto, e nell’era digitale, il true crime esiste praticamente su ogni mezzo, raggiungendo più persone che mai. Film documentari, serie TV, libri, podcast, account Twitter, gruppi Facebook, forum Reddit e persino canali YouTube e TikTok sono costruiti attorno all’argomento.

Per capire la reale portata del fenomeno tutt’altro che passeggero, basti pensare che la prima stagione di una docuserie Netflix come Making a Murderer ha registrato nelle sue prime cinque settimane del 2015 19,3 milioni di visualizzazioni, non molto distanti dalle 20 milioni della prima stagione di Stranger Things nel suo primo mese nel 2016. Per non parlare dei podcast in tema come Serial che ha rastrellato circa 40 milioni di download nei suoi primi tre mesi di streaming o My Favorite Murder condotto da 2 comici americani, che con circa 35 milioni di download al mese, è il secondo podcast più ascoltato al mondo.

Il true crime (che prima di approdare in TV inizia a diffondersi come nuovo genere letterario già nel 1966, quando in America usciva A Sangue Freddo di Truman Capote) non è quindi solo un guilty pleasure irrinunciabile per tanti spettatori, ma è diventato un buon affare soprattutto per chi questi show li produce. E non solo perché l’argomento è, come abbiamo visto, straordinariamente popolare, ma anche perchè i fatti di cronaca appartengono a tutti, non possono cioè essere protetti dalla legge sul copyright, per cui i casi più sensazionali possono essere – e sono – raccontati all’infinito attraverso i vari formati, con tutte le implicazioni etico-morali che questo comporta e di cui si inizia a discutere, vista l’inesistente sensibilità che viene spesso riservata alle famiglie delle vittime.

Ed è qui che è scattata negli ultimi anni una guerra senza scrupoli tra le varie emittenti e piattaforme streaming per proporre il “delitto perfetto”. Si perchè ormai gli spettatori dalla mente allenata dopo anni di CSI e Law & Order e ormai abituati a ricoscere un colpevole anche dall’indizio più insignificante, sono diventati negli anni sempre più attenti ed esigenti. E quando decidono di impiegare, a seconda del numero di puntate, dalle 6 alle 10 ore del proprio tempo per la visione di una serie basata su un fatto di cronaca, bisogna anche dargli qualcosa di “succoso”.

Nessuno vuole un racconto stereotipato, con un omicidio di facile soluzione e che non regge il confronto con gli abissi angoscianti della psiche umana. Sennò tanto varrebbe mettere sul 38 giallo e spararsi l’ultima maratona di Murder Comes to Town. Trovare il “giusto crimine”, contorto e malato, o l’omicidio più incredibilmente orrendo, meglio ancora se divisivo, cioè in grado di dividere il pubblico tra innocentisti e colpevolisti, è metà dell’opera in questa dura battaglia.

The Staircase, e cioè la scala, produzione HBO con un cast di altissimo livello, può in questo senso essere un buon esempio, visto che la vicenda o meglio il delitto in essa raccontato, sembra la trama di un romanzo crime, magari uno di quelli con protagonista uno scrittore di romanzi crime accusato dell’omicidio della moglie, basata però in questo caso su fatti drammaticamente reali e già ampiamente documentati, nonchè in grado di appassionare (e dividere) il pubblico da ormai più di 20 anni.

La storia ha infatti inizio la notte del 9 dicembre 2001 quando una ricca direttrice di una multinazionale, Kathleen Peterson (Toni Colette), seconda moglie di Michael Peterson (Colin Firth), noto romanziere ed ex marine, viene trovata morta ai piedi delle scale interne della loro abitazione, in una pozza di sangue. Tanto sangue, “come se le fosse scoppiata la testa”, diranno gli inquirenti accorsi sulla scena, che non ci metteranno molto a dichiarare scena di un crimine.

Quello che sembra un drammatico incidente domestico, è destinato ad assumere, con il passare delle ore e dei giorni, i contorni di un cupo mistero che vede lo scrittore Michael al centro di un’accusa di omicidio, con conseguente clamore mediatico dovuto alla sua figura, visto che Peterson aveva anche da poco deciso di buttarsi in politica, (ri)candidandosi a sindaco della cittadina di Durham nel North Carolina, la cui amministrazione (e quella stessa procura che poi lo perseguirà) aveva già aspramente criticato dalle colonne del quotidiano locale Herald-Sun.

Basta forse questo per capire come il personaggio interpretato da un glaciale Colin Firth, abbia avuto gioco facile nel manovrare a suo favore l’opinione pubblica, accettando per esempio sin da subito di farsi riprendere da una troupe francese per una serie documentaristica sul suo caso, che diviene anche nella serie prodotta da HBO parte integrante della trama, abbiamo già detto da romanzo, visto che tra i tanti colpi di scena non mancherà neanche una liaison nata nel frattempo tra Peterson e la montatrice della serie documentario.

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Il vero Michael Peterson in “The staircase”, docuserie Netflix

A proposito di quest’ultima, va detto che sebbene infiniti libri (compresa un’autobiografia dal titolo Behind the staircase, scritta dallo stesso Peterson), e svariati programmi e podcast (l’episodio N. 100 del già citato My favorite Murder è dedicato proprio a questo caso), se ne siano già occupati, la serie HBO si basa in buona parte proprio sulla docuserie francese con lo stesso nome realizzata da Jean-Xavier de Lestrade, un vero e proprio precursore del genere, visto che iniziò ad occuparsene già nel 2002, presentandola dapprima come film nel 2004 e poi di nuovo, dopo la riapertura del processo nel 2011, come serie di 13 episodi andata in onda su Netflix nel 2012-2013, con una breve aggiunta nel 2018, dopo l’ultimo atto in tribunale.

Ma c’è il documentario e c’è poi l’adattamento del documentario che, essendo un prodotto HBO (che non è TV, ma HBO), dovrà essere per lo spettatore un’esperienza televisamente avvincente. Ed è qui che entra in gioco Antonio Campos, creatore, sceneggiatore e regista di 6 degli 8 episodi della miniserie, già definito “malvagio” dalla famiglia Peterson o “traditore” dagli autori francesi del doc, visto che in questo caso il regista italo-brasiliano non ha voluto fare sconti a nessuno. Di certo non a Michael Peterson (descritto come un abile manipolatore, losco, egocentrico e a stento capace di non mentire), nè tantomeno alla vittima (la moglie Kathleen) o al resto della loro famiglia allargata.

A Campos non interessa tanto decostruire l’intera vicenda (cosa che comunque gli riesce molto bene, seminando indizi per ogni possibile versione di una morte mai spiegata), quanto piuttosto dissezionare un matrimonio e una famiglia “perfetti”, ben presto alle prese col disvelamento di segreti vecchi di decenni, bugie e silenzi, poggiati sull’ipocrisia della classe benestante americana e sull’omertà di un nucleo dove nessuno può dire di conoscersi davvero…

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FIRST KILL
PRIMA STAGIONE (2022)

Trasmissione originale: Netflix dal 10 giugno 2022
Trasmissione italiana: Netflix dal 10 giugno 2022

FIRST KILL – RACCONTO
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“FIRST KILL”, racconto contenuto nella raccolta “VAMPIRES NEVER GET OLD: TALES WITH FRESH BITE” (edizione inglese)

  • Autore: Victoria “V.E.” Schwab e autori vari
  • Editore: Titan Books Ltd.
  • Data di pubblicazione: 22 settembre 2020
  • Pagine: 304
  • Prezzo: 11,41 €
SINOSSI LIBRO: Affonda i tuoi denti in questa raccolta… In questa deliziosa nuova collezione, troverai undici nuove storie di vampiri dalle voci principali della narrativa per giovani adulti. Entra in “The House of Black Sapphires” di Dhonielle Clayton e scopri il mondo segreto dei vampiri e della magia dietro le porte di New Orleans. Fai la conoscenza di “The Boys From Blood River” di Rebecca Roanhorse, con il potere allettante dei loro terribili sacrifici. E in “First Kill” di V.E. Schwab, assisti alla secolare lotta tra vampiri e cacciatori, con il brivido dell’amore proibito. Vampiri in agguato sui social media, vampiri affamati di qualcosa di più del semplice sangue, vampiri che fanno coming out – e che escono per la loro prima uccisione – questa raccolta dà una nuova svolta al classico secolare.

DAL LIBRO ALLA SERIE-TV

Che razza di vampiro ha le lentiggini?
Juliette Fairmont

vampira originaria

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  • Titolo: First Kill
  • Produzione: Stati Uniti
  • Anno: 2022
  • Stagioni: 1
  • Episodi: 8
  • Sigla: The Zombie Song di Stephanie Mabey
  • Creato da: V.E. Schwab
  • Cast: Sarah Catherine Hook (Juliette Fairmont); Imani Lewis (Calliope Burns); Elizabeth Mitchell (Margot Fairmont); Aubin Wise (Talia Burns); Gracie Dzienny (Elinor Fairmont); Dominic Goodman (Apollo Burns); Phillip Mullings Jr. (Theo Burns); Jason R. Moore (Jack Burns)
  • Genere: Fantasy, Teen-drama
Premetto che il genere non è, questa volta, tra i miei favoriti. E qui mi riferisco al filone vampiresco, visto che come vedremo, First Kill, vuole piuttosto essere un ibrido di vari generi, secondo quella prassi ormai consolidata e che ha fatto la fortuna di Netflix (anche se oggi premia un po’ meno…) di andare incontro ai gusti dello spettatore, dandogli in pasto esattamente quello di cui ha più fame.

Una complicata roba di algoritmi, che per noi comuni mortali si traducono in tendenze: a volte “nuove”, delle altre di ritorno o che ripescano nel più fortunato passato, come quella dei vampiri che esplodeva al cinema 15 anni fa, con la Twilight mania (2008) e che in questo caso ha bisogno di essere condita con una spruzzatina di teen-drama post-moderno e tematica LGBT(QIA+) con al centro ovviamente una storia d’amore, meglio se proibita.

Basato su un racconto di V.E. Schwab, scrittrice di romanzi fantasy e di libri di narrativa per bambini e young adult, che della serie è anche creatrice, First Kill segue le vicende di Juliette Fairmont (Sarah Catherine Hook), una vampira dalla vita agiata che vive con la sua famiglia di vampiri originari a Savannah, in Georgia. (In First Kill, essere una vampira originaria significa che sei nato, non creato, anche se non è chiaro come esattamente questo accada.) A 16 anni, le pillole di sangue di cui ha vissuto per tutta la vita (qui il riferimento è a True Blood) stanno perdendo la loro efficacia, ed è tempo per lei di fare la prima uccisione del titolo.

Qui entra in scena Calliope Burns (Imani Lewis), la nuova ragazza arrivata a scuola a cui Juliette non riesce a smettere di pensare. Ma quando finalmente si prepara a sferrare il suo primo morso, Juliette incontra un palo dritto al cuore. Calliope non è solo una normale adolescente; ma una cacciatrice di mostri cresciuta da una famiglia di cacciatori di mostri, anche loro piuttosto pressanti affinchè la ragazza si decida a commettere il suo primo omicidio. Questa, in breve, la storia di amore proibito.

Non è un caso se tutte le più famose saghe televisive e cinematografiche sui vampiri negli ultimi due decenni presentano una sorta di trama alla Romeo e Giulietta – Stefan ed Elena di The Vampire Diaries o Angel e Buffy in Buffy – L’ammazzavampiri e First Kill non evita questi paragoni con la cultura pop. In effetti, persino la sigla di apertura presenta una canzone incredibilmente orecchiabile che in realtà nomina le gocce di Bella ed Edward di Twilight. Anche se poi è proprio il capolavoro del Bardo che la serie cita in maniera ossessiva, e spesso a sproposito, a partire dal nome di una delle 2 protagoniste.

Veniamo dunque a loro, perchè l’amore proibito da solo non è sufficiente per portare avanti il racconto; e qui, nonostante lo show s’impegni fin dalla prima scena, ad evidenziare l’attrazione fisica (letteralmente nata dal nulla!) tra Juliette e Calliope, è proprio la chimica tra le 2 protagoniste (o attrici?) che, in molti casi, viene a mancare. E non sta a me parlare di scelte errate di casting, ma quando vediamo la Hook troppo impacciata anche nelle poche scene in cui non dovrà fingersi impacciata, o la Lewis più a suo agio nelle scene di combattimento che in quelle più intime con la sua partner, l’impressione è che appunto tra le 2 manchi qualcosa. E non solo a livello di alchimia…

– Ma davvero facciamo così schifo a recitare?
– Avete presente Bella ed Edward? Peggio, molto peggio…
Va solo un po’ meglio quando la serie, a differenza degli altri show sopra citati, prova a spingere sul dramma familiare. La minaccia per Juliette e Calliope non viene infatti dal mostro di episodio o da un grande cattivo stagionale, ma dai loro genitori. Entrambe le ragazze hanno forti legami con le loro famiglie, il che consente a divertenti personaggi di supporto – come la pericolosa ma amorevole sorella maggiore di Juliette, Elinor (Gracie Dzienny, Jupiter’s Legacy), e il dolce fratello maggiore di Calliope, Theo (Phillip Mullings Jr.) – di avere più importanza di un semplice genitore/familiare all’oscuro come in tante storie di vampiri.

In verità, a rubare loro la scena in più di un’occasione sono proprio le madri: Margot, la matriarca della famiglia di vampiri “nobili” interpretata da Elizabeth Mitchell (Juliet di Lost), e Talia (Aubin Wise), la cacciatrice di mostri dura come le unghie, combattuta tra il voler proteggere sua figlia e lasciarla crescere. La Mitchell e la Wise si affrontano per tutta la stagione in un delizioso parallelo che incuriosisce  più della crescente relazione tra Juliette e Cal. E quando le attrici comprimarie funzionano meglio delle protagoniste, signori, abbiamo un problema…

Un altro problema, neanche troppo secondario, in una serie basata su una forte componente fantasy-soprannaturale, è quello legato ai mostri che qui sembrano usciti direttamente dal set di Buffy nel 1999, creati in CGI in maniera a dir poco scadente, per non dire risibile, col risultato che anche le scene di combattimento con queste “creature mostruose”, hanno dei momenti di comicità involontaria (?). Nè aiuta il fatto che la mitologia che li circonda non venga mai spiegata. È stato stabilito presto che Savannah è un luogo con una tradizione secolare di mostri, ma l’estensione di quella storia, o ciò che potrebbe significare per i personaggi umani dello show, è nel migliore dei casi oscura.

Anche la mitologia dei vampiri sembra incompiuta. I vampiri di Savannah sono immuni alla luce e possono riflettersi negli specchi, in quanto “vampiri originari”, termine menzionato costantemente, senza che al pubblico venga però mai spiegato cosa significhi in pratica. Quanto tempo vivrà Juliette? I vampiri tradizionali hanno poteri speciali? Come possono morire o essere uccisi? Queste e altre domande rimangono senza risposta. Ammesso che uno voglia scoprirle in una delle 1000 mila stagioni che probabilmente seguiranno, visto che malgrado le critiche non certo entusiastiche, su Netflix la serie risulta incredibilmente la terza più vista del momento a livello globale. L’indecifrabile potere degli algoritmi…

Chiudo con una nota curiosa sulla titolazione degli episodi della prima stagione – in totale 8 – ognuno dei quali fa riferimento ad un’iniziazione: Primo Bacio, Prima Uccisione, Prima Battaglia, Primo Appuntamento, Primo Amore, Prima Separazione, Primo Arrivederci…

Mancherebbe il Primo Vaffa… Ce lo aggiungo io.

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UN AMORE SENZA TEMPO – THE TIME TRAVELER’S WIFE (2022)

Trasmissione originale: HBO Max dal 15 maggio al 19 giugno 2022
Trasmissione italiana: Sky Serie/NowTV dal 13 giugno al 27 giugno 2022

IL LIBRO
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LA MOGLIE DELL’UOMO CHE VIAGGIAVA NEL TEMPO

  • Autore: Audrey Niffenegger
  • Traduttore: Katia Bagnoli
  • Editore: Mondadori
  • Data di pubblicazione: 5 luglio 2003
  • Pubblicato in Italia: 1 luglio 2008
  • Pagine: 504
  • Prezzo: 14,50 €
SINOSSI LIBRO: Clare incontra Henry per la prima volta quando ha sei anni e lui le appare come un adulto trentaseienne nel prato di casa. Lo incontra di nuovo quando lei ha vent’anni e lui ventotto. Sembra impossibile, ma è proprio così. Perché Henry DeTamble è il primo uomo affetto da cronoalterazione, uno strano disturbo per cui, a trentasei anni, comincia a viaggiare nel tempo. A volte sparisce per ritrovarsi catapultato nel suo passato o nel suo futuro. È così che incontra quella bambina destinata a diventare sua moglie quando di fatto l’ha già sposata, o sua figlia prima ancora che sia nata…

DAL LIBRO ALLA SERIE-TV

Ho imparato a fare bene 3 cose: correre, combattere, rubare.
Henry DeTamble

bibliotecario

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  • Titolo: Un amore senza tempo – Time Traveler’s Wife
  • Produzione: Stati Uniti
  • Anno: 2022
  • Stagioni: 1
  • Episodi: 6
  • Sigla: The Time Traveler’s Wife Main Title Theme – Blake Neely
  • Creato da: Steven Moffat
  • Cast: Rose Leslie (Clare Abshire); Theo James (Henry DeTamble), Gomez (Desmin Borges); Charisse (Natasha Lopez); Annette De Tamble (Kate Siegel); Lucille Abshire (Jaime Ray Newman)
  • Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale
Altro filone/genere tra i più amati e frequentati dal pubblico, nonché in grado di affascinare scrittori, registi cinematografici e naturalmente autori televisivi, è quello dei viaggi del tempo. Lo abbiamo visto recentemente in Shining Girls, da noi recensito lo scorso mese, ma penso soprattutto a veri e propri cult come la serie tedesca Dark (Netflix) o Lost (ABC). In quest’ultima serie in particolare, lo slittamento temporale (e di memoria) che colpiva uno dei protagonisti, era solo il pretesto usato dagli autori per una delle più belle (e travagliate) storie d’amore mai raccontate (e non solo in TV), tra il moderno Ulisse, Desmond Hume, e la sua “costante” Penelope Widmore.
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“Un amore all’improvviso” di Robert Schwentke (2009), film tratto dal romanzo “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo”.

E devo ammettere che, pur non frequentando particolarmente il genere sentimentale, è proprio pensando a loro, che mi sono approcciato a questo “Un amore senza tempo“, titolo italiano scelto per The Time Traverler’s Wife, tratto dall’omonimo romanzo di Audrey Niffenegger del 2003, da cui era già stata tratta, nel 2009, una pellicola cinematografica interpretata da Eric Bana e Rachel McAdams, uscita in Italia col titolo “Un amore all’improvviso“.

Vi dico subito che, nel caso della serie, non ci troviamo e per fortuna dalle parti di Nicholas Sparks, anche perché in questo caso l’autore a cui HBO, che produce, ha affidato il compito di sviluppare, con ampia libertà creativa, il materiale di partenza, è quel Steven Moffat già creatore dell’amatissimo Sherlock, ma soprattutto di alcune delle stagioni più belle ed appassionanti del moderno reboot del Doctor Who, in cui il tema degli amori che viaggiano nel tempo era anche lì assai centrale (per l’episodio 2×04 “Finestre del tempo”, l’autore scozzese, all’epoca sceneggiatore e non ancora creatore della serie, ammette di essersi ispirato proprio al romanzo della Niffenegger). La mano sicura e risolutiva di Moffat nell’introdurre l’elemento fantasy si vede infatti già dalle prime scene.

A differenza di quanto avviene nel romanzo e nel film, quando la storia ha inizio, non abbiamo infatti nessuno spiegone, nè perdiamo troppo tempo in complicate teorie scientifiche. Vediamo invece i 2 protagonisti Henry DeTamble (Theo James, il “Quattro” della saga di The Divergent) e Claire Abshire (Rose Leslie, l’indimenticata Ygritte di Game of Thrones, nonchè moglie nella vita reale di Kit Harrington) che, guardando in camera, secondo lo stile del mockumentary, spiegano ai posteri per i quali stanno registrando le loro video-testimonianze – l’espediente usato da Moffat per rivolgersi a noi spettatori – quali siano le oggettive difficoltà della loro relazione “a distanza”, o per meglio dire a intervalli, visto che l’uomo della coppia ha l’abitudine (non controllabile) di viaggiare per periodi di tempo non definiti (si va da pochi minuti a diversi anni), con la donna costretta, come Penelope, ad aspettare il ritorno del suo Ulisse.

Tutto qui, non sappiamo perché avvenga, ma solo che, ad un certo punto “succede”. Il superpotere o se vogliamo l’inconveniente di viaggiare nel tempo, viene quindi subito trattato come una semplice condizione, o per usare le parole di Henry, come una disabilità. E anche se più in là, ci verranno forniti altri dettagli di questa sua condizione, come il fatto che questa sia dovuta ad un disordine genetico, che il “salto” avvenga quando Henry è sotto stress o che costui non possa viaggiare troppo in là nel passato o nel futuro, ma solo nell’arco degli anni della sua vita, capiamo subito che il viaggio non ha urgenza di essere indagato e spiegato, visto che il tema vuole piuttosto essere la loro storia d’amore.

Ecco quindi che scopriamo QUANDO questa è iniziata, cosa non sempre facile da inquadrare quando si viaggia nel tempo, visto che persino la coppia ha 2 diverse prospettive a riguardo… Volendo tuttavia collocare temporalmente il presente nella serie, questo è il 2008 a Chicago, dove il 28enne Henry, bibliotecario presso la Newberry Library (realmente esistente), incontra l’artista Claire, di anni 20, che di lì a poco gli spiegherà in un bar di essere la sua futura moglie. Beh, almeno a quanto gli ha raccontato lo stesso Henry nel passato, visto che prima di quell’incontro, i 2 si sono già incontrati altre 152 volte (!).

Con un salto a ritroso di 14 anni, arriviamo quindi al loro primo vero incontro (questa volta dal punto di vista di Claire), avvenuto il 23 settembre 1994 quando lei aveva 6 anni e lui 36 (l’età in cui Henry inizia a viaggiare), con l’uomo che omettendo, per adesso, alcuni dettagli, tornerà a trovarla varie volte, tanto da consigliarle di annotare su un taccuino la data di ogni loro prossimo incontro.

Una scelta, quest’ultima, che mette subito in moto temi importanti come la responsabilità in una coppia, visto che, come dice la stessa Claire, quando un uomo decide di diventare il modello maschile di riferimento per quella che era allora solo una bambina, ci si aspetterebbe che il comportamento di quell’uomo, sia nel futuro, irreprensibile, e non che questo indulga in altre relazioni nei seppur lunghi periodi di allontanamento forzato.

Da qui in poi infatti la trama si complica, anche come soglia di attenzione richiesta allo spettatore, visto che per stare dietro a tutte le varie versioni ed età di Henry (andando contro ogni teoria sui paradossi temporali, le vediamo coesistere in varie scene), la serie ci viene incontro con delle didascalie per chiarire l’età di Henry e di chi interagisce con lui (compreso lui) in un determinato momento. A questo proposito, occhio a quella che mondo internet ha già battezzato come la più strana (e surreale) scena di sesso mai vista in TV.

Se il risultato è esilarante quando la serie spinge sul versante comedy (ho dimenticato di aggiungere che una delle regole del viaggio di Henry è quella di non poter portare con sé oggetti, compresi i propri vestiti, ritrovandosi dopo ogni salto piuttosto nudo nelle più disparate situazioni), lo stesso non si può dire quando la serie vira decisamente al dramma, con il racconto di eventi traumatici legati al loro passato che, nel caso di Claire, investono lo spettatore senza la necessaria preparazione. La sensazione è che in alcuni punti, il racconto, manchi di equilibrio tra le componenti dramma e commedia, a cui si aggiunge una certa distonia tra quello che la serie dichiara e poi (non) mantiene.

C’è una scena in particolare in cui Claire ci tiene a puntualizzare che questa storia non riguarda un viaggiatore del tempo, bensì, citando proprio il titolo originale, la moglie del viaggiatore del tempo. Salvo poi doversi accorgere che la storyline principale, perlomeno quella che prende più spazio, in termini di minutaggio, e a cui sono dedicati lunghi ed importanti flashback, è quella di Henry e non di Claire.

Di certo il formato più inglese delle 6 puntate rispetto alle 8-13 di una serie americana, in questo senso, non ha aiutato, senza però nulla togliere ad una storia che, non sarà quella tra Desmond e Penny, ma il cui risultato rimane godibilissimo!

Timbro Miss Me

AGATHA CHRISTIE –  PERCHÈ NON L’HANNO CHIESTO A EVANS (MINISERIE 2022)

Trasmissione originale: BritBox dal 14 aprile 2022
Trasmissione italiana:
Sky Investigation dal 25 giugno 2022
PERCHÈ NON L’HANNO CHIESTO A EVANS? – LIBRO

AGATHA CHRISTIE – PERCHÈ NON L’HANNO CHIESTO A EVANS?

  • Autore: Agatha Christie
  • Traduttore: Diana Fonticoli
  • Editore: Mondadori
  • Pubblicazione: settembre 1934
  • Uscito in Italia: 2005
  • Pagine: 240
  • Prezzo: 11,50 €
SINOSSI LIBRO: Chi sostiene che il golf è uno sport tranquillo e rilassante non si è mai trovato nella situazione di Bobby Jones che, per un tiro maldestro, scopre uno sconosciuto morente precipitato da una scogliera. Da quel momento, la vita di Bobby si trasforma in un susseguirsi di disavventure provocate dalla sua curiosità e dall’intraprendenza di Frankie, la sua graziosa amica. Ma chi vuole uccidere i due giovani? Chi è la donna ritratta nella fotografia trovata nella tasca dello sconosciuto? E, soprattutto, chi è il misterioso Evans nominato dallo sconosciuto prima di morire?

DAL LIBRO ALLA SERIE-TV

È che loro pensavano davvero che avessimo capito tutto
Bobby Jones

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  • Titolo: Perchè non l’hanno chiesto a Evans?
  • Produzione: Regno Unito
  • Anno: 2022
  • Stagioni: 1 (miniserie-tv)
  • Episodi: 3
  • Sigla: Happy Hour – Tin Hat Trio
  • Creato da: Hugh Laurie
  • Cast: Will Poulter (Bobby Jones); Lucy Boynton (Frankie Derwent); Maeve Dermody (Moira Nicholson); Hugh Laurie (Dr. James Nicholson); Jim Broadbent (Lord Marcham); Emma Thompson (Lady Marcham); Conleth Hill (Dr. Alwyn Thomas)
  • Genere: Giallo
Soltanto due autori avrebbero potuto indurmi ad uscire dalla mia comfort zone e spingermi ad addentrarmi nel mondo semi sconosciuto delle recensioni delle serie tv; uno, lo avrete di certo già intuito, è Stephen King. L’altra è la straordinaria, unica, inavvicinabile Regina del Giallo, Dame Agatha Christie, autrice di una quantità di opere veramente impressionante e creatrice, fra le altre cose, di due investigatori fra i più amati al mondo, miss Jane Marple e monsieur Hercule Poirot.

Accostarsi ad uno scrittore così iconico del genere giallo ha sempre provocato in me una sorta di timore reverenziale: tutto sommato, avvicinarsi ad una sua opera attraverso la recensione di una serie può servire a sciogliere un po’ il ghiaccio. Se la lista dei suoi lavori è lunghissima, si può dire altrettanto dei lavori che sono stati tratti o ispirati alle sue opere. Alcuni di questi lavori sono, a mio avviso, straordinariamente ben riusciti; basti pensare alla serie tv Poirot, conclusa nel 2013 (non sono ancora riuscita ad elaborare il lutto), nella quale il leggendario detective è interpretato da David Suchet.

Sfortunatamente, accanto a film e serie tv ben fatti, hanno preso corpo cose sulle quali mai avrei voluto si fossero posati i miei occhi. E sì, non siamo qui per parlare di ogni trasposizione televisiva o cinematografica ispirata ai romanzi della Christie, ma come si fa a non citare The ABC Murders, miniserie del 2018 con John Malkovich nei panni di Poirot, o quel pastrocchio selvaggio di Un cavallo per la strega del 2020? Non parliamo poi della serie Le due verità, che dall’originale ha tratto praticamente solo il titolo e poco altro.

È dunque con una sorta di rassegnata determinazione che ho guardato Why didn’t they ask Evans?, aspettandomi praticamente di tutto; e del resto, dopo Poirot ex prete, Poirot seduttore, Poirot ex contadino (attenzione: le posizioni di Poirot Negromante e Poirot Pusher sono tutt’ora aperte), mi sono ritrovata discretamente corazzata contro gli obbrobri. Ma con mio grande sollievo questa miniserie si è rivelata molto buona.

hugh laurie why didnt they ask evansAdattata e diretta da Hugh Laurie, che interpreta anche la parte del dottor Nicholson, questa miniserie di appena tre puntate è tratta dal romanzo di Agatha Christie, pubblicato nel 1934, “Perché non l’hanno chiesto ad Evans?”. Ed è proprio per cercare di rispondere a questa domanda, pronunciata da un uomo in punto di morte, che Bobby e Frankie, i giovani protagonisti del romanzo, si trovano ad affrontare una serie di vicissitudini, cercando il bandolo di una intricatissima matassa tra tentativi di omicidio, pseudo incidenti, cliniche psichiatriche e scambi di persona.
Sostanzialmente fedele al romanzo, l’unico problema che ho riscontrato nelle serie è la gestione dei tempi: ad un inizio lievemente troppo lento segue una conclusione fin troppo frettolosa. È chiaro, diluire gli avvenimenti di un romanzo, tra l’altro di neanche 300 pagine, in tre episodi presuppone una lentezza che, date le circostanze, definirei fisiologica; tuttavia, durante la prima puntata si rischia di perdere concentrazione, considerato il fatto che non accade nulla di che. Per contro, una volta che tutti i nodi sono venuti al pettine, le doverose spiegazioni sulle dinamiche e su alcuni personaggi sono state abbastanza sbrigative, come se qualcuno fosse improvvisamente diventato consapevole dell’esaurirsi del tempo a disposizione (“Oddio, Mary, ma stiamo per perdere il treno delle 11!”).
Per il resto, considero le differenze rilevate rispetto al romanzo nulla più che peccati veniali; ad esempio, ritroviamo Frankie un po’ più sostenuta, più Lady Frances che Frankie, se vogliamo. Bobby invece ha perso parte della propria sorridente spregiudicatezza e del suo spirito investigativo: incongruenze, fatti misteriosi ed inspiegabili, persino tentativi di toglierlo di mezzo, nulla, nulla pare scuoterlo inizialmente. Apparentemente desideroso di indagare quando un gatto è desideroso di fare un bagno con acqua e sapone, Bobby focalizza il proprio interesse solo sul recarsi a Londra per aprire un negozio di auto usate con l’amico Beadon.
bombetta 400x600 1 Inedito è il risalto che viene dato ad un personaggio, nel libro essenzialmente una comparsa senza nome, che qui invece è un bizzarro ibrido tra It, più sobrio ma con tanto di palloncino, e Chucky la Bambola Assassina, e che, munito di bombetta e di un piccolo sfollagente piatto, si sposta praticamente dovunque (forse si serve, appunto come It, della rete fognaria?), riuscendo non si sa bene in quale modo ad essere presente nelle fasi decisive degli eventi.

A conti fatti però, gli avvenimenti si susseguono in maniera logica e sufficientemente chiara e anche le variazioni fatte si amalgamano con disinvoltura ai tratti originali che caratterizzano il libro perché, e questo rappresenta per me un elemento cruciale nel giudicare la serie, tutto contribuisce a mantenere intatto lo spirito e il senso del romanzo.

Nulla da dire sulla performance di un cast degno di nota, con un Will Poulter e una Lucy Boynton perfettamente in parte, per tacere poi di Hugh Laurie, un azzeccatissimo e squisitamente allarmante dottor Nicholson. Davvero ben fatto, Hugh: attore eccellente, uomo affascinate e per di più regista ed adattatore di tutto rispetto. Tanto di cappello… anzi, tanto di bombetta.

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WE OWN THIS CITY – POTERE E CORRUZIONE
(MINISERIE-TV 2022)

Trasmissione originale: HBO dal 25 aprile al 30 maggio 2022
Trasmissione italiana: Sky/Now TV dal 28 giugno al 12 luglio 2022

WE OWN THIS CITY – IL LIBRO

WE OWN THIS CITY: A TRUE STORY OF CRIME, COPS AND CORRUPTION (lingua inglese)

  • Autore: Justin Fenton
  • Editore: Faber & Faber
  • Data di pubblicazione: 23 febbraio 2021
  • Pagine: 352
  • Prezzo: 12,68 €
SINOSSI: Baltimora, 2015. In tutta la città scoppiavano disordini quando i cittadini chiedevano giustizia per Freddie Gray, un uomo di colore di 25 anni morto durante la custodia della polizia. Allo stesso tempo, la droga e la criminalità violenta stavano tornando a crescere. Per anni, il sergente Wayne Jenkins e la sua squadra di ufficiali in borghese – la Gun Trace Task Force – sono stati gli eroi lodati e decorati della città. Ma per tutto il tempo avevano scremato dalle buste di droga che avevano fatto, intascando migliaia di contanti trovati in case private e piazzando prove false per scacciare gli affari interni. Perché chi crederebbe agli spacciatori, ai contrabbandieri o alle persone che si erano semplicemente occupate delle loro attività quotidiane al di sopra della parola della task force d’élite della città? Ora, alla luce del loro spettacolare processo alla fine del 2018, e in un lavoro di reportage sbalorditivo e di scrupolosa scoperta di sé, Justin Fenton ha messo insieme una storia scioccante di corruzione sistematica.

DAL LIBRO ALLA SERIE-TV

Andiamo a prendere quelle armi, perché finché produciamo, finché mettiamo questi numeri, non gliene frega un cazzo di quello che facciamo. Possiamo letteralmente fare qualsiasi cazzo di cosa vogliamo. Questa città è nostra. È nostra.
Wayne Jenkins

sergente di polizia

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  • Titolo: We Own This City: Potere e Corruzione
  • Produzione: USA
  • Anno: 2022
  • Stagioni: 1 (miniserie-tv)
  • Episodi: 6
  • Sigla: We Own This City Main Title Theme di Kris Bowers (feat. Dontae Winslow)
  • Creato da: George Pelecanos e David Simon
  • Cast: Jon Bernthal (Sgt. Wayne Jenkins); Wunmi Mosaku (Nicole Steele); Jamie Hector (Sean Suiter); Josh Charles (Daniel Hersl); McKinley Belcher III (Momodu “G Money” Gondo); Darrell Britt-Gibson (Jemell Rayam); Rob Brown (Maurice Ward); David Corenswet (David McDougall); Dagmara Domińczyk (Erika Jensen); Don Harvey (John Sieracki); Larry Mitchell (Scott Kilpatrick)
  • Genere: Poliziesco, Drammatico
ANTEFATTO: Esattamente 20 anni fa, il 2 giugno 2002, sulla tv via cavo americana (HBO) andava in onda il primo episodio di The Wire, da molti (e anche dal sottoscritto) considerata come la migliore serie-tv mai realizzata, ambientata tra i bassifondi (ma anche ai piani alti) di Baltimora, città nello stato del Maryland con il più alto tasso di criminalità degli Stati Uniti d’America, e indagata in ogni suo aspetto da un ex-giornalista del Baltimore Sun (David Simon) e da un ex-agente della polizia di Baltimora (Ed Burns).

Una serie amatissima da critica, addetti ai lavori ed ex presidenti degli Stati Uniti (Obama), ma che ancora oggi, conoscono e/o hanno visto in pochi. Non solo in Italia, dove è uscita quasi in sordina nel 2005 (oggi è disponibile in streaming sul catalogo di NowTV), ma anche in patria, dove non è mai stata premiata con riconoscimenti importanti, né soprattutto dal grande pubblico, costringendo creatori e cast ad affidare, ogni anno, le speranze di un rinnovo agli appelli a mezzo stampa dei critici e alle petizioni dei (pochi) fan, in un’epoca in cui internet né i social erano ancora quella forza capace di trasformare una serie di nicchia (come lo era Breaking Bad nelle sue prime stagioni) in un fenomeno pop grazie all’insistenza del passaparola.

Ciononostante, anche se a fatica, The Wire (traducibile in italiano come “la cimice”, con riferimento agli strumenti di intercettazione utilizzati nelle indagini di polizia, che nel serial hanno sempre un notevole rilievo), alla fine, nel 2008, portava a casa il risultato, raccontando per 60 episodi spalmati su 5 stagioni (ognuna con un diverso nucleo tematico e ognuna più incredibilmente bella dell’altra), i molti aspetti di una capitale del crimine, riuscendo nel contempo anche a lanciare alcuni attori allora sconosciuti come Idris Elba, Michael B. Jordan (Creed) o il compianto Michael K. Williams (che nella serie interpreta il leggendario Omar Little) più una dozzina di altri ottimi caratteristi.

Un titolo spartiacque che ha segnato un prima e un dopo nella storia dell’intrattenimento televisivo, introducendo quella vena di realismo sociale che è ormai parte del vocabolario stilistico di qualsiasi crime che si rispetti. Chiedere, per esempio, a Roberto Saviano o a Stefano Sollima, qual è l’opera che li ha influenzati di più nella creazione di Gomorra romanzo (2006) e serie (2014), solo uno dei tanti titoli che (non) la citano più o meno indirettamente.

Potete quindi immaginare l’eccitazione che ha colpito i nostalgici fan della serie, quando a inizio 2021 David Simon annunciò di essere al lavoro su We Own the City, da lui stesso considerato un seguito ideale di The Wire. Anche se ambientate entrambe a Baltimora, e con diversi attori che qui ritornano anche per una semplice comparsata, è bene comunque specificare che si tratta di due storie e di due idee diverse di racconto.

We Own the City parte intanto da una storia vera, già documentata nel 2018 da Justin Fenton (che compare come sè stesso in un piccolo cameo) nel suo libro inchiesta dal titolo omonimo (sottotitolo: «A True Story of Crime, Cops and Corruption»), la cui idea venne suggerita al giornalista proprio dall’ex reporter David Simon che, favorevolmente colpito dai suoi articoli sulle colonne del Baltimore Sun, per il quale anch’egli scriveva, gli chiese di scriverne un libro con l’idea di realizzarne una miniserie (sviluppata questa volta insieme al suo storico collaboratore e produttore George Pelecanos, con cui aveva già realizzato The Deuce) prodotta sempre da HBO, che ha affidato la regia a un super professionista di Hollywood come Reinaldo Marcus Green – sua la firma su King Richard, il biopic tennistico sul padre delle sorelle Williams che ha fruttato l’Oscar a Will Smith.

Per spiegare contesto e ambientazione, siamo all’indomani dei tumulti al grido di “nessuna giustizia, nessuna pace”, scoppiati a Baltimora nel 2015, dopo la morte del 25enne Freddie Gray, uno dei tanti afroamericani vittime della brutalità della polizia. Ed è proprio in questo complicato periodo storico per la città di Baltimora, descritto anche nella bellissima sigla, che prende il via il racconto della nascita e della caduta della GTTF (Gun Trace Task Force), un’unità in borghese (non direttamente coinvolta nel caso Gray) creata per monitorare la diffusione delle armi, ma come vedremo, ben presto più interessata a confiscare droga (da rivendere ad altri insospettabili spacciatori) e soprattutto ingenti somme di contanti trovate nelle abitazioni dei soggetti fermati, spesso senza distinzione tra normali cittadini e criminali.

Dimentichiamoci dunque degli aspiranti eroi Moreland, McNulty o Freamon, con la loro etica del mestiere e i loro pugni duri dal cuore grande, perchè 20 anni dopo, i nemici da combattere a Baltimora non sono più spacciatori, boss del narco-traffico o senatori corrotti, bensì quella stessa polizia a cui il sistema ha dato letteralmente in mano le chiavi della città.

Emblema di questa vera e propria associazione a delinquere, è il personaggio del sergente Wayne Jenkins, interpretato da Jon Bernthal (che aveva già lavorato con Simon in The Plot Against America, in attesa di rivederlo nei panni che furono di Richard Gere in una serie tratta da American Gigolò), che seguiamo dall’ingresso nel corpo di polizia alla fine degli anni ’90 all’efferata sequela di atti malavitosi e di brutalità che ne catterizzeranno il suo percorso. Un  giustiziere fuori controllo, mosso da un fervore quasi religioso, al quale Simon e Pelecanos aggiungono un credibilissimo lato umano che aiuta lo spettatore a entrare in sintonia (ma non certo in empatia…) con il personaggio.

Anche se la palma d’oro di peggior poliziotto mai apparso sullo schermo va senza dubbio ad un sempre ottimo Josh Charles (The Good Wife) che affianca Jenkins con il ruolo di Daniel Hersl, un poliziotto spavaldo ed esaltato noto tra i residenti di Baltimora (nonchè tra i suoi superiori) per la sua brutalità, oggetto di oltre 50 denunce da parte dei cittadini, al cui confronto le azioni di Vic Mackey in The Shield rischiano di sembrare delle marachelle.

Completano il ricco cast Jamie Hector (il glaciale Marlo Stanfield di The Wire) nel ruolo di Sean M. Suiter, un detective della omicidi coinvolto nel caso della task force e chiamato a testimoniare davanti al gran giurì; Wunmi Mosaku (Lovecraft Country), che intepreta Nicole Steele, un avvocato assegnato alla Divisione Diritti Civili del Dipartimento di Giustizia; e Dagmara Dominczyk (Succession) e Don Harvey (The Deuce) nei rispettivi panni di Erika Jensen e John Seracki, due agenti dell’un’unità anti-corruzione dell’FBI, le cui scrupolose indagini (con tanto di intercettazioni che ritornano…) porteranno al fermo, avvenuto nel 2017, di ben 8 poliziotti dell’unità speciale Gun Trace Task Force, che così tanto discredito hanno portato non solo alla città di Baltimora, ma ad un’intera nazione.

Il dito di Simon che, lo ricordiamo, è prima di tutto un autore politico, qui non viene puntato solo sul microcosmo rappresentato dai protagonisti del caso di cronaca in grado di sconvolgere l’opinione pubblica, ma in primis contro la politica e le istituzioni, le prime ad aver colpevolmente permesso che un sistema militarizzato e schiavo delle statistiche da rispettare a tutti i costi, trasformasse questi uomini in soldati, i criminali in nemici, le città in campi di battaglia; e quando si va in guerra prima o poi qualcuno viene ucciso, da una parte o dell’altra, e le vittime innocenti sono solo un inevitabile danno collaterale. (Ri)Vedi The Wire

Si chiude qui, anche per questo mese, il nostro angolo sulle novità televisive presenti in palinsesto, che naturalmente speriamo possano tornare utili (fatecelo sapere nei commenti!) nella scelta delle serie-tv che vi accompegneranno durante quella che già si preannuncia come una bollente stagione estiva.

A questo proposito, anche se la TV non va mai in vacanza, tocca purtroppo registrare che nei mesi estivi c’è sempre una flessione nelle proposte, quantomeno in quelle di qualità (in genere piuttosto concentrate tra settembre e maggio), per cui piuttosto che segnalarvi a breve una nuova lista di titoli non troppo all’altezza, preferiamo prenderci una breve pausa che permetterà anche a noi di tornare ancora più carichi di prima.

Nuovo appuntamento dunque a Settembre, quando Libri in TV tornerà per raccontarvi il meglio (e il peggio) passato in streaming durante quest’estate 2022. Se vorrete, sempre su questi schermi!

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4 Commenti

  1. Teresa

    Tanti nuovi spunti interessanti, spero di poter vedere presto anche io “We Own This City” dove mi pare ci sia Jon Bernthal, già noto in The Walking Dead…
    Grazie dei consigli!

    Rispondi
  2. Manu Luna

    That’s surprise! Oltre che a te, caro Bingewatcher, ben trovata anche a Miss Me, che con piacere ritrovo in una delle recensioni alle serie tv tratte dai libri che proponi per noi in questo articolo, sempre accuratissimo e ricco di informazioni tali che a volte mi viene il sospetto tu abbia collaborato a stretto contatto con qualcuno dei personaggi che citi!!! Premessa a parte, riconosco subito di non aver visto nessuna tra le serie elencate, ma mi ha molto divertito lo spirito con cui hai scritto a proposito delle allegre ma non troppo argute vampirelle di “First Kill”, che da quel che ho capito, almeno per quanto ti riguarda, è una serie ben lontana dal raggiungere il numero di stagioni della collega (almeno in ambito tematico) “The Vampire Diaries”, di cui sento spesso parlare e che pare non abbia ancora stancato il pubblico, dopo ben 8 stagioni.

    Sono uscita con un po’ di confusione mentale dall’articolo su “Un amore senza tempo – The time traveler’s Wife”. Non avendo visto il film, che forse mi avrebbe potuto aiutare un po’ di più a collegare i tanti passaggi necessari a spiegare di cosa parli la serie, ho cercato di immaginare alcune scene descritte da te (non ultime, lo confesso, le situazioni di nudità in cui si trova il protagonista maschile della serie), ma credo sia una di quelle serie che vadano viste e apprezzate col tempo, proprio per la vasta e non comune gamma di accadimenti dati in sorte a chi vi recita e che immagino non sia stata una passeggiata interpretare (e recensire!)

    Concludo dicendo che vorrei avere un’unghia del pelo sullo stomaco tuo o di Miss Me riguardo la visione a dir poco “forte” di certi contenuti visivi (e all’occorrenza pure letterari…) che mi permetterebbero di ampliare e non di poco, la scelta di ciò che seguo o leggo; un esempio ne sono due serie che ho da poco notato su Netflix dal titolo “Il gioco di Gerald” e “Blindspot” che non so se conosci e che dalla trama mi intrigano un po’…chissà che non decida di “buttarmi” anche io in acque un po’ diverse rispetto a certi mari troppo piatti che avvisto ultimamente in questo mondo!

    Buona estate e alla prossima, già attesissima, cinquina!

    Rispondi
  3. Peppe

    Nuovo appuntamento con la rubrica Libri in TV e con un Bingewatcher sempre molto ferrato sui pezzi affiancato in questa occasione da una Miss Me che propone una miniserie realizzata da Perché non l’hanno chiesto a Evans titolo di un libro la cui autrice evidentemente tinge di giallo ciò che tocca ed anche da un gioco tranquillo come il golf può scattare il caso… tralasciando vampiri e viaggi nel tempo che non mi attraggono, le altre proposte sono per lo più legate a dei Cold case americani.
    Interessante Staircase, incidente domestico o femminicidio, un caso del 2001 che tuttavia risulta molto attuale, il titolo che tuttavia mi intriga di più è We own this city, criminalità e giochi di potere un mix da non perdere seppur legato alla realtà…
    Grazie per le attuali proposte e aspettiamo settembre per nuovi suggerimenti…

    Rispondi
  4. Fabio

    Complimenti recensioni scritte in modo magistrale,lettura scorrevole ed avvincente.

    Rispondi

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